L’ORDINE DEL CUORE
R. De Monticelli
14 x 21, 316 pag.
Garzanti Editore – 2004

I BARBARI
A. Baricco
15 x 21, 213 pag.
Fandango Edizioni – 2006

Ci sono libri che sembrano essere stati scritti per poi venir letti assieme ad altri libri, quasi esprimessero gli stessi bisogni, pur nella palese differenza tematica.
Questo mi sembra il destino de “L’ordine del cuore “e de “I barbari “, due saggi apparentemente lontani uno dall’altro ( il tentativo di pervenire ad una teoria del sentimento il primo, un’analisi del modo odierno di fare esperienza il secondo ), accomunati in realtà dallo stesso anelito, la ricerca di un senso della vita.
Il nostro viaggio alla scoperta della corporeità ci ha finalmente condotto ( cfr. “Psiche e Techne”, autunno 2006 ) ad un punto fermo: la necessità, per l’uomo moderno, di approfondire la propria capacità di “sentire “le emozioni, le passioni, i sentimenti che lo abitano, per poter poi, una volta orientata la propria vita in funzione di questa particolare capacità percettiva, gestire al meglio l’ambiente tecnologico da egli stesso prodotto.

Tutto è tecnica, non c’è popolazione umana che non abbia sviluppato un proprio modo tecnico per affrontare il mondo; ma questo comune destino sta avendo, nella sua espressione occidentale moderna degli sviluppi talmente inattesi da portare gli uomini a chiedersi non “che cosa noi possiamo fare con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi “, tanto si è allargato il suo dominio sulla vita.
Nè a contenere questa marea montante sembrano più bastare il pensiero occidentale, forte della sua tecnicissima divisione tra corpo e mente o quello orientale, nelle sue espressioni Indiane e Cinesi entrambe tese, anche se per vie diverse, al controllo tecnico della energia vitale.

Neppure la presunta liberazione dei sensi e della corporeità che ci viene dai popoli meno industrializzati sembra bastare, perché le tecniche da essi sviluppate leniscono le nostre paure senza trovarne il senso.

E così, dopo aver frequentato un corso di Tantra o uno di Chi Kung, aver seguito un Guru Indiano o aver ballato con una danzatrice del ventre, aver letto Odifreddi piuttosto che Muhammad An-Nafzawi ci ritroviamo ancora più soli, accanto alla morte che, sorniona, sembra attenderci al varco di ogni nostro malessere. Annota De Monticelli come “non c’è dubbio che oggi è soprattutto di questo che avremmo bisogno: di un po’ di luce sopra la nostra frammentaria esperienza morale, ma anche di un po’ di voce articolata o di ragione da dare alla meraviglia, allo sgomento e alla pietà“.

Ma se questa capacità di rischiarare il nostro vivere passa, come abbiamo ripetutamente sottolineato, attraverso un approfondimento della nostra percezione, allora il sentire un sentimento, il provare un’emozione, il patire una passione divengono stati del nostro essere assolutamente non dati a priori, quanto piuttosto bisognosi di un continuo lavoro personale teso al portarne alla luce la presenza.
Si può vivere un’intera esistenza completamente sordi alle percezioni del cuore e, forse, questo è il rischio maggiore a cui siamo esposti in quest’epoca, tesi tra le nostre capacità cognitive, messe a dura prova dallo sviluppo tecnologico da noi stessi prodotto e le nostre spinte pulsionali, la nostra Energia, che sembra disperdersi sempre più a mano a mano che cerchiamo di possederla.

Manca un ordine, l’ordine del cuore.

La vita affettiva può dunque definirsi come manifestazione di un sentire che è esperienza più o meno adeguata di valori nella loro varietà e nella loro importanza, o incidenza personale. In questo senso, non solo gli atti del volere, decisioni, scelte e azioni, ma anche gli stessi fenomeni affettivi che ne stanno alla base, motivandoli: piacere e dolore, benessere e malessere, umori, emozioni, sentimenti, passioni sono da intendersi non come accadimenti della vita psichica, eventi mentali, ma come risposte personali all’esperienza di valori, risposte che sono insieme manifestazioni ( spesso addirittura scoperte ) di sé, e tappe del farsi uomo” ( pag. 85 ). Roberta De Monticelli ci guida così, attraverso l’utilizzo del modello fenomenologico, alla ri-scoperta della nostra capacità di sentire, intimamente connessa all’essere stati amati fin dal nostro primo apparire nel mondo.

Dalla riconoscenza per questo amore che abita il nostro cuore può iniziare un cammino di approfondimento che, lungi dal perdersi in complicati sofismi intellettuali, si incarna profondamente nella nostra corporeità.

I vari strati del sentire che ci abitano, i “picchi” ( di luce e di ombra ) che dobbiamo attraversare per divenire consapevoli dei nostri sentimenti, la natura anonima e impersonale dell’odio che può sfiorarci, vengono ben analizzati dall’autrice, con continui rimandi alla concretezza del vivere, fino a far emergere il nostro movimento primario, quel mettersi in ascolto dell’altro ( dell’Altro? ) che ci fa essere pienamente uomini.

Fare esperienza della vita è possibile a patto di muoversi verso l’altro.

Purtroppo, raggiunta questa consapevolezza ( il movimento prima del pensiero, orientarsi verso l’altro è vita, rinchiudersi è malattia ), che sembra spazzare via tutte le infinite contrapposizioni tra mente e corpo che hanno danneggiato il pensiero occidentale, Roberta De Monticelli non trova il coraggio di andare oltre e di approfondire questo “orientarsi “, che è, in primis, il gesto della relazione carnale tra un uomo ed una donna che si concretizza nell’esperienza del fare l’amore. Esita l’autrice, e si affida nuovamente alla divisione mente – corpo privilegiandone il primo aspetto, facendo così diventare l’orientarsi verso l’altro un orientarsi verso un generico “bene “.

Così:

  • le emozioni, da gesti concreti che arrestano il movimento e che si sciolgono in uno scuotimento vegetativo, divengono “una classe degli affetti “( pag. 125, ed in questo caso l’autrice compie un errore scientifico: neurofisiologicamente le emozioni sono gesti );
  • i piaceri sessuali vengono ridotti a gesti routinari ( “sono caratterizzati da una riproducibilità perfetta “dice De Monticelli, a pag. 148, confondendo il fare l’amore con la pornografia );
  • l’amore viene confuso con l’ammirazione, mettendo sullo stesso piano le persone e le opere d’arte ( pag. 175, pag. 189 ) per poi cadere, inevitabilmente, nel dividere l’anima dal corpo quando, innalzando il pensiero Platonico a modello ( pag. 241 ), De Monticelli non si avvede del fatto che lo spirito Greco antico non vive con naturalezza il sesso ma, al contrario, usa il sesso ( etero-, omo-, in altri modi ) con gli stessi scopi dei popoli orientali, cioè per chetare gli affanni di un’anima che si vive ormai prigioniera della carne e che anela al divino.

Così l’eros dei corpi, quello vero, che desidera semplicemente esprimere l’amore facendolo, viene ancora una volta messo da parte. E alla donna viene un’altra volta ancora impedito di divenire ciò che è, passaggio per l’amore; e all’uomo viene un’altra volta ancora impedito di divenire ciò che è, colui che apre il passaggio.

Ma questo Roberta De Monticelli lo riconosce a fatica e, se lo fa ( come a pag. 264 ), subito dopo si riattesta sull’amore estatico ( pag. 279, quando parla dello stato di grazia dei mistici ponendolo in qualche modo all’apice dei “modi d’amore “), annacquando così tutte le considerazioni sulla felicità che pure emergono, piene di luce, dalle pagine finali del libro.

Un libro che, se da un lato ci permette finalmente di scorgere la continuità che esiste tra il nostro sentire ed il nostro agire, esita poi a fare il passo successivo, quello che ci porterebbe ad approfondire la nostra sessualità, il nostro compiere gesti d’amore e di odio.
Così, il fare esperienza del mondo diviene nuovamente pensare, piuttosto che muoversi.

Ma che cosa vuol dire fare esperienza oggi?

Alessandro Baricco non ha dubbi: “l’esperienza ( oggi ), è qualcosa che ha forma di stringa, di sequenza, di traiettoria: implica un movimento che inanella punti diversi nello spazio del reale: è l’intensità di quel lampo.
Non era così, e non è stato così per secoli. L’esperienza, nel suo senso più alto e salvifico, era legata alla capacità di accostarsi alle cose, una per una, e di maturare un’intimità con esse capace di dischiuderne le stanze più nascoste. ( ). Sarà banale, ma spesso i bambini insegnano. Io penso di essere cresciuto nella costante intimità con uno scenario preciso: la noia. Non ero più sfigato di altri, era per tutti così. La noia era una componente naturale del tempo che passava. Adesso prendete un bambino di oggi e cercate la noia, nella sua vita. Misurate la velocità con cui la sensazione di noia scatta in lui non appena gli rallentate il mondo attorno. Lo vedete il mutante in erba? Il pesciolino con le branchie? Nel suo piccolo è già come la bicicletta: se rallenta, cade. Ha bisogno di un movimento costante per avere l’impressione di fare esperienza
( pag. 95, 96, ecc. ).

I barbari. I barbari, per antonomasia, si muovono, si spostano.

Con il termine “barbari” Baricco circoscrive, più che un preciso gruppo umano, un “sentire” diffuso legato a questi nostri tempi, nei quali noi adulti ( diciamo chi è nato prima degli anni ‘80 ) si ritrova spiazzato di fronte ad Internet, gli extracomunitari, alle unioni tra persone dello stesso sesso, alla TV spazzatura, ai centri commerciali.

Cresciuti con il mito della fatica che porta al risultato ( o con il suo contrario; in ogni caso il concetto di base è lo stesso, quello di essere impegnati in qualcosa, fosse pure fare niente ), non riusciamo a correre con la stessa velocità del mondo odierno, non lo sentiamo nostro, non sappiamo più farne esperienza. Perché continuiamo ad usare gli stessi strumenti, mentre il mondo è cambiato.

Così cerchiamo, leggiamo, ma gli esperti sembrano non darci l’aiuto di cui abbiamo bisogno: qualcosa che illumini il senso da dare al nostro movimento.
I barbari, loro questo senso sembrano averlo trovato: il senso delle cose non abita una qualche profondità metafisica, non risiede nei depositi di quella struttura mentale che da sempre noi abbiamo chiamato anima; il senso delle cose è il movimento.
Noi dunque la chiamiamo ancora anima, o la inseguiamo girando attorno al termine spiritualità, e quel che vogliamo tramandare è l’idea che l’uomo sia capace di una tensione che lo spinge al di là della superficie del mondo e di se stesso, in un terreno in cui non è ancora dispiegata la totale potenza divina, ma semplicemente respira il senso profondo e laico delle cose, con la naturalezza per cui cantano gli uccelli o scorrono i fiumi, secondo un disegno che forse proviene davvero da una bontà superiore, ma più probabilmente sgorga dalla grandezza dell’animo umano, che con pazienza, fatica, intelligenza e gusto assolve per così dire al compito nobile di una prima creazione, che rimarrà l’unica, per i laici, e sarà invece il grembo dell’incontro finale con la rivelazione, per i religiosi. E’ il paesaggio che la borghesia ottocentesca aveva scelto per sé, intuendo che in un campo del genere non avrebbe potuto perdere. Noi lo abbiamo ereditato con una così sconfinata adesione mentale da scambiarlo per uno scenario perenne, eterno, e intoccabile.
Facciamo fatica a immaginare che l’uomo possa essere qualcosa di degno al di fuori di quello schema
” ( pag. 121 ).

Loro invece, i barbari, ci riescono: si sono inventati l’uomo orizzontale.
Gli deve essere venuta in mente un’idea del genere: ma se io impiegassi il mio tempo, la mia intelligenza, la mia applicazione a viaggiare in superficie, sulla pelle del mondo, invece di dannarmi a scendere in profondità? Non è possibile che quanto di vivo c’è, ad esempio nella nona di Beethoveen, sia ciò che è in grado di viaggiare in superficie, e non ciò che giace in profondità? Avevano davanti il modello del borghese colto, chino sui libri, nella penombra di un salotto con le finestre chiuse, e le pareti imbottite: l’hanno sostituito, istintivamente, con il surfer. Una specie di sensore che insegue il senso là dove è vivo in superficie, e lo segue ovunque nella geografia dell’esistente, temendo la profondità come un crepaccio che non porterebbe a nulla se non all’annientamento del movimento, e quindi della vita“.

Ed i nostri figli che, essendo figli, di cose che cambiano se ne intendono, già si comportano da mutanti e, pur essendo costretti dal modello scolastico e culturale a crescere come siamo cresciuti noi, tendono comunque a divenire diversi da noi. Non migliori o peggiori, diversi.

Nel modo più chiaro ce lo fanno capire non appena sono in grado di esibirsi nel più spettacolare surfing inventato dalle nuove generazioni. Il multitasking. Sapete cos’è? Il nome gliel’hanno dato gli americani: nella sua accezione più ampia definisce il fenomeno per cui vostro figlio, giocando al game boy, mangia la frittata, telefona alla nonna, segue un cartone alla televisione, accarezza il cane con un piede, e fischietta il motivetto di Vodafone“( pag. 98 ). Ricordo ancora i consigli di mio padre, “fai una cosa alla volta se vuoi farla bene ” ……!

Continua Baricco “ qualche anno ancora e ( vostro figlio ) si trasformerà in questo: fa i compiti mentre chatta al computer, sente l’I-pod, manda sms, cerca in Google l’indirizzo di una pizzeria e palleggia con una palletta di gomma. Le università americane sono piene di studiosi che stanno cercando di capire se sono dei geni o dei fessi che si stanno bruciando il cervello. Non sono ancora arrivati ad una risposta precisa. Più semplicemente voi direte: è una nevrosi. Può darsi, ma le degenerazioni di un principio svelano molto di quel principio: il multitasking incarna bene una certa idea, nascente, di esperienza. Abitare più zone possibili con un’attenzione abbastanza bassa è quello che evidentemente loro intendono per esperienza. Suona male, ma cercate di capire: non un modo di svuotare tanti gesti che sarebbero importanti: è un modo di farne uno solo, molto importante. Per quanto possa sembrare clamoroso, non hanno l’istinto a isolare ciascuno di quei gesti per compierlo con più attenzione e in modo da cavarci il meglio. E’ un istinto che è loro estraneo. Dove ci sono gesti, vedono possibili sistemi passanti per costruire costellazioni di senso: e quindi esperienza. Pesci, se capite cosa voglio dire “.

I nostri figli stanno cambiando, stanno mutando il modo di fare esperienza della vita.

D’altronde anche noi, attraverso questa rubrica, passiamo velocemente da un sistema culturale all’altro alla ricerca del senso.

Da questo punto di vista, chi come me ha attorno ai 40 anni rappresenta la specie ibrida ( mezzi mammiferi mezzi pesci, direbbe Baricco ), con la testa che funziona come quella dei nostri padri, e le gambe che corrono verso l’acqua. Perché una cosa è chiara: questa mutazione riguarda tutti, anche se ciò che conosciamo lo definiamo civiltà e quel che ancora non ha nome barbarie, e ne abbiamo paura.

Qui De Monticelli e Baricco trovano un punto di intesa:

  • se il senso delle cose sembra non albergare più in un loro tratto autentico, profondo;
  • se l’anima si mostra ora più simile ad un sistema cibernetico a reti interconnesse in cui navigare, seguendo la traccia che ci connette con altri pezzi di mondo;
  • se, infine, la sorte che ci tocca è quella di immergerci in questa mutazione;

allora possiamo salvare ciò che ci è caro del vecchio modo di vivere a patto di lasciarlo decantare nel cambiamento in corso, per salvarlo rinnovato.
Salvarlo nella mutazione, piuttosto che dalla mutazione.

Orientarsi verso l’altro carnalmente, fidarsi del proprio corpo, divenire il proprio corpo, con quella riconoscenza per essere stati concepiti e poi messi al mondo che non è mai data a priori, ma va maturata nel tempo, facendone esperienza muovendosi.

Il movimento verso l’altro da sé come sentimento primario.

Fare esperienza muovendosi. Fermarsi è malattia.

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