Strumenti di bordo

Dopo questi primi anni di “viaggio”, è forse opportuno effettuare un bilancio di quanto finora scoperto, per poi ripartire più consapevolmente verso altri mari, ed altri uragani.

Io sono il mio corpo, il mio corpo sono io.

Modellato nel suo svilupparsi da spinte genetiche e ambientali, il corpo è strutturato per puntare verso l’alto ( siamo gli unici esseri viventi bipedi, la struttura dei nostri sistemi neurovegetativi – i chakra del pensiero Indiano – rimanda ad un modello verticale, che dai piedi e dal bacino sale verso la testa ), e per andare verso l’altro ( la nostra coordinazione motoria segue un andamento complesso – i meridiani scoperti dai saggi Cinesi – che estrinseca all’esterno, sulla pelle, le continue variazioni energetiche e funzionali degli organi interni ).

La forza che ci è stata donata per affrontare l’esistenza ha un limite, e va consumandosi col passare degli anni; nell’espressione della sessualità ne possiamo scorgere le variazioni ed indovinarne il punto di consunzione.

Abitiamo un mondo sempre più tecnologico, dove per tecnologico si intende il modo unicamente umano di modificare l’ambiente naturale per costruirne uno a propria misura, stante l’estrema vulnerabilità del nostro organismo rispetto a quello degli altri esseri viventi.

Ma questa tecnologizzazione progressiva comporta un paradossale impoverimento dell’andare verso l’altro e del puntare verso l’alto, cioè del modo umano di vivere. La vita e la morte, il sesso e l’ascesi, il lavoro e le feste, il tempo e lo spazio, che dal corpo del primitivo si irradiavano e prendevano forma scambiandosi incessantemente, nel tempo moderno sopravvivono come entità autonome e perciò inumane, per cui la vita diventa una realtà assoluta che si contrappone alla morte, come la sessualità alla spiritualità ecc., con l’unico risultato che la nostra società, apparentemente gaudente, gronda di realtà tragiche, mentre viviamo una esistenza “ pornografica “ che ci ha tolto il piacere dello spirito; dove il lavoro è divenuto fatica da sopportare in attesa del giorno di festa, mentre non abbiamo più tempo e non sappiamo più far spazio, né per noi né per gli altri.

E’ la fine della società dello scambio, tanto cara alle popolazioni primitive, e l’inizio della società del valore, sempre troppo grande, troppo lontano, impossibile da raggiungere compiutamente.

Questa è la malattia dell’Occidente: tutto ha un valore, ed in quanto vale è misurabile: ergo, è vero solo ciò che si può misurare.

La progressiva egemonia del sapere razionale a scapito dell’inaridirsi della sapienza emotiva inizia fin dal primo apparire del genere umano, come tentativo di circoscrivere e contenere i disagi del vivere, per poi finire con il ridurre tutta la vicenda umana a qualcosa di contabilizzabile, spingendo ai “ margini “ tutto ciò che è personale, individuale, unico, a favore di una astratta omogeneizzazione dell’esistenza, per renderla in qualche modo controllabile. L’uomo, da essere vivente che punta verso l’alto ( verso l’Altro?) e va verso l’altro, viene ridotto prima a macchina e poi, in tempi recenti, ad “ animale dotato di computer “, e la richiesta di senso ( chi sono io? ) che da sempre ne indirizzava l’esistenza, da espressione di una cultura diviene problema individuale, in ciò stesso nascosto, stato d’animo destinato a venire rimosso in quanto dato emotivo e quindi contrastante con tutto ciò che è misurabile.

Ipertrofia del cognitivo e regressione del sentimento per cui, al paziente che chiede il “ perché “ della malattia, il medico risponde in maniera “ tecnica “ eludendo, attraverso l’uso di argomentazioni apparentemente razionali ma in realtà incomprensibili, la richiesta di senso evocata dal malato. Il risultato, ancor più paradossale, è che nella nostra epoca il dolore, il male, la malattia hanno assunto una dimensione decisamente più grande di quella che avevano in passato, colpendoci non più in maniera palese come succedeva un tempo, ma permeando sottilmente tutta la nostra esistenza: la ricerca di senso, da problema primario che indirizzava la vita, diviene sotterranea angoscia del vivere pronta a riemergere, deflagrando, non appena ci si “ammala “.

Ma la ricerca di senso, in quanto desiderio primario, non può rimanere inevasa: ne cogliamo la presenza dal moltiplicarsi di convegni e ricerche sul tema dell’affettività, piuttosto che sull’importanza sempre maggiore accordata all’empatia nel rapporto con la persona ammalata, per non parlare della frequentazione, da parte di adulti di ogni età, di corsi sulla “ corporeità “ che ormai si possono trovare in ogni palestra sportiva, ecc., ecc..

La scienza vive della sospensione del senso, ed è giusto che sia così; all’inizio del III millennio l’uomo ha a disposizione strumenti tecnologici inimmaginabili rispetto ai propri predecessori per poter vivere più consapevolmente e piacevolmente l’esistenza.

Contemporaneamente, l’approfondimento del proprio “ sentire “ gli appare sempre più necessario, non solo per poter meglio immaginare gli effetti del suo fare, ma anche per comprendere più compiutamente il proprio dolore e assaporare pienamente la gioia di vivere.

Quella che è cambiata, rispetto ad un tempo, è la modalità di fare esperienza dei nostri stati affettivi: provare un sentimento o un’emozione, essere travolti da una passione, non sono certo stati del nostro essere dati a priori, è necessario un continuo lavoro di approfondimento personale per portarne alla luce la presenza; ma questo scavare non si manifesta più come un accostarsi paziente alla realtà delle cose per coglierne l’intimità più profonda, quanto piuttosto come un viaggiare veloce tra le esperienze più disparate, cogliendo, da ognuna di esse, lo slancio per andare altrove.

Fare “ surf “ fra le onde della vita, temendo la profondità di un concetto come un crepaccio che non porterebbe a nulla se non all’annientamento del movimento, e quindi dell’esistenza.

La riconoscenza per essere stati messi al mondo, i vari strati del sentire che ci abitano, la natura anonima e impersonale dell’odio che può sfiorarci, i “ picchi “ di luce e di ombra che dobbiamo attraversare per divenire consapevoli dei nostri sentimenti, divengono realtà a mano a mano che ci mettiamo in movimento e andiamo verso l’altro.

Fare esperienza muovendosi, cioè muovendo il proprio corpo: corpo maschile, corpo femminile.

A questo punto però, anche il filosofo e l’antropologo sembrano confondersi quando, nel descrivere il movimento umano, pongono l’uomo e la donna sullo stesso piano, come se essere fatti in maniera diversa non ci rendesse diversi. Purtroppo, la percezione di sé che più difetta all’uomo moderno è proprio quella di sé in quanto maschio: con un padre spesso assente, immerso in un ambiente effeminato, costretto a contenere la propria originaria foga maschile ( che ovviamente si scaricherà poi in gesti tragici ), l’uomo del III millennio ha un bisogno vitale di sentirsi prima di tutto “ homo “, poiché tutto attorno a sé sembra condurlo ad un insensato rimescolamento di generi.

Così, se prima di ogni salto è necessario flettere le ginocchia, ritirandosi apparentemente dal mondo per poi poterci entrare di slancio, così il ritiro nel bosco, la riscoperta del nostro lato selvaggio diviene un passaggio essenziale per il formarsi dell’animo umano e per divenire compiutamente uomini.

Odore di resina e di selvatico, rumori lontani portati dal vento, lampi di luce tra le foglie che scoprono bacche saporose, il bosco ci permette di liberare la nostra forza Fallica, il nostro esporci e correre verso il mondo.

Essere maschi significa primariamente essere capaci di ergersi, di puntare in alto, donando se stessi per riappropriarsi della originaria modalità di manifestare un sentimento attraverso il corpo, il nostro corpo, così diverso rispetto a quello della donna.

Orientarsi verso l’altro carnalmente, fidarsi del proprio corpo, divenire il proprio corpo, con quella riconoscenza per essere stati concepiti e poi messi al mondo che non è mai data a priori, ma va maturata nel tempo, facendone esperienza muovendosi.

Il movimento verso l’altro da sé come sentimento primario.

Fare esperienza muovendosi. Fermarsi è malattia.

Ora possiamo ripartire.

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